3 Febbraio 2010 - Avvenire
È possibile un ascetismo per i non credenti? Le tragedie del mondo interrogano ancora la teologia? Un filosofo non cattolico e un pensatore di Chiesa a confronto sul (non) credere. Giacomo Canobbio e Duccio Demetrio
Canobbio: «Interpellati dalla domanda di salvezza»
«Dobbiamo arrivare a porre le questioni di fondo. Quando si gettano le domande più in là, si può suscitare un interrogativo più grande». Giacomo Canobbio, docente della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale di Milano, chiede un salto di qualità nel rapporto tra chi si professa religioso e chi resta nella non credenza. Il Papa chiede un "dialogo " con "coloro per i quali la religione è una cosa estranea".
Da un punto di vista teologico, qual è il campo di confronto più fecondo con i non credenti?
«Oggi prevale troppo l'etica. Oserei dire "purtroppo" perché non si riesce ad andare alla ragione delle scelte etiche. In tale dialogo dovrebbero scaturire le domande fondamentali: come mai siamo al mondo? Noi uomini siamo una fluorescenza della natura o espressione di una realtà più grande che corrisponde al nostro fine? Se siamo al mondo per uno scopo, allora sorge la domanda: come maturare insieme una convergenza su uno scopo che ci supera? Sono interrogativi poco comuni nel confronto, che si concentra di più su bioetica ed ecologia».
Vede spazi concreti per questo dialogo?
«Non vedo esperienze significative. Penso alla passata Cattedra dei non credenti istituita dal cardinal Martini a Milano, luogo dove si affrontavano temi più fondamentali rispetto a quelli dibattuti oggi nell'agorà. Dobbiamo arrivare a porre le questioni di fondo. Se si parte dalle domande che pongono anche gli altri interlocutori, si resta fermi nelle proprie preclusioni. Nell'editoria vi sono segnali del ritorno della questione-Dio. Ho presente il volume del sociologo Rodney Stark, Un unico vero. Le conseguenze storiche del monoteismo (Lindau): dal mondo anglosassone e tedesco arrivano domande basilari su Dio. Il convegno della Cei di dicembre voleva mettere al centro questo interrogativo: su questo dobbiamo proseguire».
Dio "uno Sconosciuto": per Benedetto XVI questa è la figura teologica di chi cerca ancora Dio. Quali i Suoi tratti vanno oggi rimarcati?
«La figura biblica del Dio salvatore. Viviamo in un'epoca in cui si sottolinea il disincanto delle ideologie, dei progetti politici e medico-tecnico. Le persone - lo stanno avvertendo in questa crisi economica e nel recente terremoto di Haiti - si pongono la domanda: potrà esserci per noi una salvezza? La Bibbia e il cristianesimo hanno custodito questo messaggio, annunciando un Dio salvatore. Gli uomini si domandano se c'è qualche salvezza all'orizzonte».
Rispondere a tale domanda è urgente a causa di un deficit di proposta della Chiesa o per la portata dell'interrogativo?
«Direi che è impellente la domanda di salvezza che ci viene rivolta. Il new age è attestazione che le persone desiderano un'esperienza di salvezza. Ed essa presuppone che vi sia la possibilità di un Salvatore. Come cattolici ci spostiamo troppo sull'etica: certo, i problemi sono urgenti, ma il rischio è che ciò non preveda anche l'annuncio. Dobbiamo riproporre Dio salvatore come risposta di una salvezza antropologicamente fondata».
La posizione naturalistica si va affermando nel dibattito sulle neuroscienze. Quale il contributo precipuo che la teologia cristiana può offrire su questo tema?
«Il pensiero teologico non deve spaventarsi della prospettiva naturalistica. Nella storia del pensiero si è iniziato a parlare di anima leggendo il desidero dell'uomo di elevarsi sopra il finito. Il teologo deve accettare che quel che avviene nel cervello, finora definito "spirituale", sia un processo naturale. Ma su questo bisogna provocare l'interlocutore naturalistico: come si giustifica il mio desiderio di ergermi al di sopra del dato biologico? Come credenti, dovremmo porre interrogativi e non accusare chi non la pensa come noi».
Demetrio: «La trascendenza riguarda anche il mondo laico»
La trascendenza e i novissimi, la ragione «allargata» e la pratica della carità. A Duccio Demetrio docente di filosofia all'università Bicocca di Milano, non mancano temi e soggetti possibili per un fecondo scambio tra laici e cattolici d'oggi. «Sporgersi oltre i crinali della ragione» È l'invito del suo libro «Ascetismo metropolitano» (Ponte delle grazie).
Sembra riecheggiare l'«allargare la ragione» di Benedetto XVI. Un compito che accomuna non credenti e cristiani?
«Credo che un terreno di incontro sia la dimensione metafisica, cioè la questione della trascendenza. Non sul piano solamente religioso ma come necessità umana di un Oltre che raggiunga il senso più profondo di un'umanità non autocentrata. Karl Jaspers diceva che la metafisica è "guardare oltre". Altrimenti ci resta la scienza e il suo metodo, che non può maneggiare i temi dell'essere. Grazie a questa laica coscienza inquieta, i punti di contatti sono molteplici».
Un esempio?
«Siamo chiamati a sfidare la speranza per migliorare il finito: vi è qui una ricca tradizione di confronto tra credenti e non credenti che si possono occupare della terra. Io sono un non credente molto cristiano: per me è centrale la dignità di ogni vita e volto».
Lei sostiene il «pensiero dubitante». Il Papa chiede di accogliere chi vede Dio come «Sconosciuto». Il suo approccio preclude ogni approdo di fede?
«Da parte mia vi è una grande disponibilità, altrimenti contraddirei me stesso. Il rapporto con il Trascendente è una sorta di filosofia perennis del pensiero dubitante. Ed è una ricerca continua delle ragioni per le quali è impossibile non confrontarsi con la domanda religiosa. Si tratta di una terza via tra il credente e l'ateo ottocentesco, una modalità che da parte dei credenti chiede di essere avvicinata, visto che è poco riconosciuta».
Cosa il cristiano dovrebbe trasmettere di più su Dio all'ateo?
«Il motivo fondamentale del messaggio cristiano è la salvezza del tempo ultimo, cioè i Novissimi, che l'ateo non riesce a concepire, ma da cui è attratto. Da ciò mi sento coinvolto non solo nell'intelligenza ma anche nelle emozioni, proprio quando mi incontro con i gesti fondamentali della tradizione cristiana, ad esempio la carità. Credere dovrebbe essere una lotta modesta contro il male, che è qualcosa non lascia indifferente il non credente».
Quale il compito della Chiesa in questo?
«C'è un abbassamento della tensione: il dubbio intralcia, muoversi su questa strada di "ascetismo" rappresenta un problema per chi vuole massificare tutto. Va fatto il salto di qualità per arrivare a un pensiero che non rinunci all'inquietudine, che è poi la possibilità interiore di un incontro».
In questi colloqui si nota, da parte dei "diversamente credenti", una presa di distanza dagli atei più agguerriti.
«Questo radicalismo ateo è attenuato. Nei dibattiti i laici sono in difficoltà con questi atei ottocenteschi. Posso fare l'esempio della Casa della cultura di Milano dove, da 7 anni, propongo un corso su "I dubbi dei non credenti", tempo fa un tema-tabù. Sentire Enzo Bianchi o Massimo Cacciari fu uno shock per i frequentatori di questa istituzione culturale, espressione di un ateismo del XIX secolo. Guardiamo gli scaffali delle librerie: anni fa era impensabile pensare a sezioni religiose!».
Quali le urgenze per un'alleanza tra chi si professa religioso e chi senza religione?
«Per il non credente si tratta di valorizzare la soggettività della persona (un termine cristiano) che è portatrice di diritti. Proprio per questa attenzione alla persona concreta sono molto vicino a don Virginio Colmegna della Casa della carità di Milano. È importante sviluppare insieme il tema religioso, cui si può arrivare da posizioni diametralmente opposte».