sabato 27 febbraio 2010

Verso un nuovo Areopago

a cura di Lorenzo Fazzini
25 Febbraio 2010 - Avvenire
La Santa Sede annuncia uno scambio stabile tra laici e cattolici; l’intellettuale non credente domanda nuove iniziative di dialogo. Mons. Gianfranco Ravasi: «In una Fondazione strutturiamo il confronto» - Giuliano Amato: «Incontriamoci, cattolici fiduciosi e laici aperti»

Mons. Gianfranco Ravasi: «In una Fondazione strutturiamo il confronto»
«ll nostro dicastero sta organizzando una Fondazione intitolata "Il cortile dei gentili" che si ispira al discorso del Papa alla Curia a dicembre». L’annuncio è di monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. Una prima concretizzazione dell’auspicio di Benedetto XVI per un rinnovato dialogo con gli uomini e le donne che non credono ma vogliono avvicinare Dio.
Quali gli obiettivi di questo nuovo ente?
«Primo, creare una rete di persone agnostiche o atee che accettino il dialogo e entrino come membri nella Fondazione e quindi del nostro dicastero. Inoltre, vogliamo avviare contatti con organizzazioni atee per avviare un confronto (non certo con l’Uaar italiana, che è folcloristica). Terzo, studiare lo spazio della spiritualità dei senza Dio su cui aveva già indagato la Cattedra dei non credenti del cardinale Martini a Milano. Infine, sviluppare i temi del rapporto tra religione, società, pace e natura. Vorremmo, con questa iniziativa, aiutare tutti ad uscire da una concezione povera del credere, far capire che la teologia ha dignità scientifica e statuto epistemologico.
La Fondazione vorrebbe organizzare ogni anno un grande evento per affrontare, di volta in volta, uno di questi temi».
Il debutto?
«Nella seconda metà di quest’anno, probabilmente a Parigi, città molto viva su questi argomenti: abbiamo già avuto la disponibilità di Julia Kristeva (nota linguista e psicanalista, ndr)».
Ma tra i non credenti vi è disponibilità al confronto proprio su Dio?
«Bisogna tener conto dei diversi ateismi, non riducibili ad un unico modello. Da un lato c’è il grande ateismo di Nietzsche e Marx che purtroppo è andato in crisi, costituito da una spiegazione della realtà alternativa a quella credente, ma con un sua etica, una visione seria e coraggiosa, ad esempio nel considerare l’uomo solo nell’universo. Oggi siamo in presenza di un ateismo ironico-sarcastico che prende in considerazione aspetti marginali del credere o posizioni fondamentaliste, ad esempio nella lettura della Bibbia. È l’ateismo di Onfray, Dawkins e Hitchens. In terzo luogo vi è un’indifferenza assoluta figlia della secolarizzazione ben sintetizzata dall’esempio che Charles Taylor fa in L’età secolare quando afferma che se Dio venisse in una nostra città, l’unica cosa che succederebbe è che gli chiederebbero i documenti».
Come si conciliano annuncio e dialogo?
«Nell’identità. Come nel dialogo con le religioni, che richiede il mantenimento delle reciproche identità, vi deve essere rigore anche con l’ateismo. Più che una dimostrazione a chi è religiosamente povero, forse bisogna far vedere la ricchezza di quell’oasi che è il credere. Ogni fede non è mai solo informativa ma anche performativa, cioè offre dati sull’uomo ma al tempo stesso li dice con calore. Se presenta in modo ricco la religione, il dialogo adempie al compito di presentare la fede in maniera efficace, senza che si punti su bisogni primari, ad esempio la religione come "farmaco" in una malattia. Lo scambio è già fruttuoso con la scienza: come sostiene Michel Heller, oggi siamo in presenza di una vera e propria "teoria del dialogo" per cui, in alcuni ambienti, scienza e fede, e qui direi ateismo e fede, si incrociano. Basti pensare alla teoria della relatività, che ha bisogno dello spazio e del tempo nel loro significato filosofico, cioè simbolico. Qui c’è lo spazio di un vero dialogo nell’amicizia».

Giuliano Amato: «Incontriamoci, cattolici fiduciosi e laici aperti»
«Penso che chi ha fede debba farsi fiducia e resistere alla tentazione di dire: "Mondo, vade retro". Chi ha il senso del sacro non può sottrarsi al confronto». Nel dirlo Giuliano Amato, oggi presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dopo una lunga carriera universitaria e politica (fu più volte primo ministro), manifesta l’auspicio che il «cortile dei gentili» si materializzi in nuove occasioni di parole e confronti.
Nei «Dialoghi post-secolari» (Marsilio) con monsignor Paglia lei scriveva: «L’amore cristiano dà una marcia in più». Perché?
«È un dato di fatto storico che, se perde l’elemento religioso, una società smarrisce inesorabilmente l’attenzione all’altro, avviandosi ad una chiusura del proprio io che diventa una marea incontenibile. Oggi però siamo di fronte ad una forma settaria di ragione illuministica per cui si vuole vedere la religione come una superstizione del pre-moderno».
Perché torna di moda questa posizione anti-religiosa?
«Tale "predicazione", che io chiamo "illuminismo settario", ricompare per ragioni storicamente comprensibili, ovvero quale frutto di un’insofferenza del post-secolarismo. Infatti, una cosa è accettare che nello spazio pubblico ognuno possa dire la propria, un’altra ammettere le conseguenze di ciò. Appurato che nella sfera pubblica le religioni abbiano titolo, ecco nascere l’insofferenza per i temi religiosi stessi. Ma la domanda è se la riduzione dell’eteronomia dalle gerarchie come emancipazione della libertà, esperienza propria delle istituzioni democratico-liberali, costituisce un’abolizione dei vincoli ispirati alle ragioni di utilità collettiva oppure attribuzione a ciascuno delle responsabilità delle scelte giuste».
Come se ne esce?
«Penso a due personaggi: Isaiah Berlin, per il quale l’esercizio della libertà è sempre una scelta morale. E Giovanni Paolo II: per renderci più liberi, diceva, Dio si fece impotente. Ora ci troviamo di fronte al peccato della tecnica e dell’etica per cui il limite alla mia libertà è di per se stesso abusivo. Ma dobbiamo ricordarci che il limite, anche quello che ci viene dalle gerarchie, è anche un richiamo. In realtà molti laici cadono nella trappola per cui la libertà non tollera limiti. Ma esistono colonne d’Ercole da non varcare: e nella storia esse si spostano sempre più in là. Oggi lo percepiamo nelle nostre potenzialità di distruzione nei confronti degli altri».
Ad esempio?
«Le tematiche "verdi", la messa in guardia di quanto l’uomo fa sulla natura come portatore di conseguenze ignote. Gli ogm o i farmaci di cui non conosciamo gli esiti. Oppure: possiamo far ricerca sull’essere umano anche nel suo stato embrionale?».
Non le pare che il dialogo laici-cattolici sia "bipartizzato": ognuno si sceglie gli interlocutori?
«Vedo tale pericolo. È facile trovare interlocutori laici attenti su solidarietà, immigrazione, povertà, Darfur o Haiti. E invece, sulla bioetica, è mancata la fiducia reciproca e non ci si è più parlati: all’epoca della legge 40 percepii diffidenza da entrambe le parti. Ho vissuto quel periodo come un momento di rottura. Avvertii, nello specifico, da parte dei laici l’insofferenza verso il punto di partenza del discorso, ovvero assumere che l’embrione è un essere umano allo stato nascente. Avevamo tanto parlato di dialogo fino ad allora ma non eravamo arrivati a fidarci a sufficienza».
Come rinverdire il confronto?
«Ho sollecitato interlocutori di sicura fede a tenere incontri confidenziali per affrontare le questioni "calde" senza strepito, per cercare di capirci. Purtroppo i laici fanno ancora spesso l’equazione "religione = società arretrata". Così succede che i credenti si vedono in una società che non rispetta la religione e si chiudono in una minoranza condannata alla minorità».