a cura di Lorenzo Fazzini
5 Febbraio 2010
Cettina Militello: testimoni e innovativi per scardinare l’indifferenza - Elena Loewenthal: la meschinità sconfitta dalle grandi domande
Cettina Militello: testimoni e innovativi per scardinare l’indifferenza
«Il dialogo costituisce qualcosa di profondo del nostro essere cristiani e persone. E quando parliamo di questa dimensione, dobbiamo pensare a qualcosa non nato ieri, ma dal Concilio Vaticano II, da Giovanni XXIII e Paolo VI". Cettina Militello, teologa, dirige la Cattedra «Donna e cristianesimo» alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum di Roma. Per lei il cuore dello scambio tra cattolici e laici resta l’indifferenza religiosa ormai «massificata».
Proprio il Concilio parlava di «Cristo che svela l’uomo all’uomo». Vale ancora questa parola?
«Lei cita il numero 22 della Gaudium et spes. Ma questa affermazione, che per noi credenti dovrebbe essere travolgente, ormai risulta archeologica. Il problema riguarda quanti non avvertono più il problema della vita, il nodo di Cristo, il confronto con la Chiesa. La Gaudium et spes denunciava il l’ateismo del Novecento mentre oggi siamo di fronte ad un’indifferenza diffusa. La mia angoscia è vedere che Egli non interessa più a questa massa enorme di gente. L’indifferenza ha raggiungo nella nostra Italia soglie drammatiche, al di fuori delle piccole comunità cristiane».
Cosa vorrebbe suggerire ai non credenti che – cito Benedetto XVI – «guardano a Dio come uno Sconosciuto»?
«Ma il nodo vero è la massa addormentata che ha sostituito il valore con il non valore, il presente con l’effimero, il progettare con il non progetto, il senso con il <+corsivo>non sense<+tondo>. E non si pone nessun interrogativo».
Su quale terreno sfidare questa indifferenza radicale?
«Solo la via testimoniale conta. Solamente di fronte all’evidenza di una fede coerente, l’indifferente si può porre la domanda: perché ti comporti così? Con l’ateo sistematico posso anche discutere, con l’indifferente unicamente il vissuto concreto di un Totalmente Altro suscita inquietudine. Ma oggi, come cattolici, non riusciamo più a inquietare nessuno».
Quali segni possono mettere i credenti in questo ambiente indifferente?
«Basta la coerenza familiare e professionale: una famiglia che rende conto delle ragioni della propria speranza o un professionista che ha rigore civico sono situazioni che interpellano. La via della testimonianza resta plausibile solo se l’altro si trova accolto, riconosciuto e non condannato. Per prima cosa, dunque, ci vuole accoglienza. Inoltre, come credenti dobbiamo abitare i non luoghi: il vuoto giovanile, gli spazi dell’estremo e dell’esteriorità in una società dove tutto sta diventando palcoscenico. È facile compatire l’emarginazione ma non una vita che si pensa soddisfatta».
Cosa suscita all’intellettuale credente questa «massa di indifferenti»?
«Rappresenta un appello: ci obbliga a ridire la fede in modo nuovo. Faccio parte della Società italiana di ricerca teologica: da un po’ stiamo rileggendo il depositum fidei, ovvero i concetti base della fede quali paternità, creazione, figliolanza, incarnazione. Dobbiamo trovare nuove formule linguistiche perché quelle antiche non raggiungono più la gente. La scoperta più affascinante è una necessità multidisciplinare per cui entrano in gioco anche le scienze fisiche e sperimentali. Gli esempi passati sono tanti e qualificati: penso a Clemente Alessandrino che rilesse la teologia in chiave di mistero, Tommaso d’Aquino che ridisse la teologia come scienza. Essi si facevano capire dai loro contemporanei. Ci vuole coraggio nell’intraprendere questo lavoro, perché altrimenti i cristiani resteranno un piccolo gruppo senza valenza. Come è possibile che di fronte alla concretezza estrema di Dio non mi sforzo di mettere in campo una pedagogia capace di scoprire la nostra umanità? Che in fin dei conti, come dice S. Agostino, è la nostalgia di Dio che Lui ha messo dentro di noi?».
Elena Loewenthal: la meschinità sconfitta dalle grandi domande
«Ai cattolici vorrei domandare di non rassegnarsi alle meschinità che la società ci propone e di non rifugiarsi nelle piccole questioni. Mi piacerebbe che i cattolici vigilassero sulla totale perdita di senso di chi afferma, ad esempio, che la droga è bella. Bisogna far pensare alla gente che c’è qualcosa di più nella vita». Elena Loewenthal, esperta di ebraismo, traduttrice e scrittrice (con Conta le stelle, se puoi, edito da Einaudi, è risultata finalista dell’ultimo Campiello), vede nell’indifferenza il dramma che deve interrogare i credenti e i non credenti «pensanti».
«Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente». Così il Papa nella sua visita alla Sinagoga di Roma. Cosa le suscitano queste parole?
«Questa è l’istanza fondamentale. Oggi il problema è la voragine tra le piccole e le grandi cose. Per me la fede non è solo avere certezze ma porsi interrogativi di fronte alla realtà. Però constato un attaccamento alle cose meschine, per cui è urgente fare questo salto verso il trascendente: basta aprire un giornale per capirlo. Ad esempio, c’è un battage sull’uso della droga, o altri temi che riempiono la testa della gente. Al punto che quando i cuori sono occupati da tematiche simili, non c’è più spazio per gli interrogativi grandi. Capita che questi vengono visti un’intrusione antipatica».
Lei fa parte della tradizione ebraica: cosa porta tale appartenenza al dibattito tra credenti e laici?
«Io ho un’identità "decisa", sebbene me ne sia appropriata tardi, quando sono arrivata all’uso della ragione. Sono nata, come tanti ebrei italiani, in un contesto di assimilazione quale possibilità di sopravvivenza dopo la Shoah. Quando mi chiedono se sono più ebrea o italiana, rispondo così: tutti abbiamo identità diverse dentro di noi, io ho quella di ebrea, di donna, di madre, di traduttrice. Concepisco la mia fede ebraica come fedeltà al mio passato e al futuro cui sono chiamata. Verso la fede provo una matassa di sentimenti, un amore, un attaccamento di ordine sentimentale. Non raggiungo la mia identità tramite un ragionamento bensì il sentimento. Questo è "molto ebraico", poco logico e razionale, sebbene si alimenta dallo studio dei testi».
Dio e i non credenti che lo vedono come Sconosciuto. Come far loro conoscere il Dio della Scrittura ebraico-cristiana?
«Può sembrare una banalità ma rispondo così: interrogando l’altro. Penso che l’ascoltare le posizioni altrui può far nascere qualcosa di più. Il dissenso aiuta a capire meglio se stessi. Personalmente, per un mio progetto narrativo, sto frequentando il Cottolengo di Torino. Vivo l’esperienza di confronto con una realtà di trascendente diversa dalla mia. Per me è fantastico questo scambio di battute quotidiane con le suore che terminano ogni frase con un "Deo gratias". Quasi fosse un riflesso condizionato. Questo parlare mi ha scosso perché a me non viene istintivo. Questo non significa che io mi stia spostando sulle loro posizioni, ma oso affermare che questo confronto mi può essere utile e formativo. Per me dunque rimane fondamentale questo ascolto neutro, non indirizzato al convincimento dell’altro».
Il Papa parla del "cortile dei gentili". Cosa le suscita questa figura?
«Rispondo con un esempio. Per noi ebrei esiste la Torah fisica, quella che Dio ha consegnato a Mosè sul Sinai, e la Torah orale, la tradizione sulla prima, che comprende il Talmud, il Midrash, eccetera. E siccome per gli ebrei, nei millenni, la geografia fisica è sparita, e ne è stata ricostruita una spirituale. Al suo centro vi è la Torah fisica, contornata da quella orale come una siepe. Questa siepe protegge e separa l’identità ebraica. Il "cortile dei gentili" invece è una metafora opposta perché vi radunano le genti più diverse. È un’immagine confortante».